Lo scorso dicembre l’Islanda è uscita dal tavolo dei negoziati per la spartizione delle quote dello sgombro (Scomber scombrus) nel Nord Atlantico, tavolo che unisce l’UE, Norvegia, Islanda e isole Faroer. La rottura è stata causata dalla quota assegnata all’Islanda, troppo esigua ad avviso degli ufficiali dell’isola. Infatti l’obiettivo di avere 130 mila tonnellate di sgombro assegnate (15 mila in più rispetto all’anno precedente) è stata rifiutata dal tavolo poiché, a dire dell’UE, causerebbe lo sfondamento del tetto di 570mila tonnellate, consigliate dalla comunità scientifica come quota massima per evitare di mettere in crisi lo stock. In particolare, il timore dei Paesi UE era che se le richieste islandesi fossero state accettate, anche le Faroer e la Norvegia avrebbero reclamato quote più alte. L’uscita dalle trattative da parte dell’Islanda è infatti stata rapidamente seguita dal ritiro delle Isole Faroer, la cui delegazione rivendicava a sua volta una quota maggiore.
L’Islanda ha quindi deciso che pescherà le sue 130 tonnellate, con o senza l’accordo con l’UE. La notizia naturalmente ha destato scalpore all’interno della Commissione Europea per la Pesca, la quale ha minacciato sanzioni. Più di recente, settimana scorsa, le sanzioni sono state annunciate sotto forma di un decreto che proibisce lo sbarco di sgombro proveniente da pescherecci islandesi nei porti Europei. Il responsabile per l’Islanda dei negoziati ha dichiarato che la misura non avrà quasi nessun effetto sugli interessi islandesi in quanto non riguarda il prodotto lavorato, che è la grande maggioranza di quello esportato, mentre solo pochissimo sgombro viene sbarcato direttamente dai pescherecci nei porti europei.
Questo scontro rispolvera vecchie ruggini fra Islanda e Gran Bretagna, risalenti alle “guerre del merluzzo” degli anni ’50 e ’70, e ancora molto fresche nella memoria di entrambi i popoli. Lo scenario è però in evoluzione: lo sgombro è un pesce pelagico, che migra in enormi banchi dalle zone di riproduzione a quelle di alimentazione, spostandosi attraverso il Nord-Est Atlantico ed entrando nelle acque europee e islandesi. Negli ultimi anni, a causa dell’ aumento di temperature, il suo range si è esteso verso nord aumentando la propria presenza in acque islandesi (da cui la richiesta di quote maggiori). Essendo un pesce prolifico e abbondante, è stato indicato ed è certamente fra i pesci più sostenibili, questo anche grazie ad una gestione oculata che ne ha impedito finora il sovrasfruttamento. Per evitare che lo stock collassi, secondo , le catture vanno contenute. La preoccupazione Europea, e soprattutto Britannica, potrebbe non essere dettata solo da interessi ambientali, vista l’importanza economica di questa risorsa per i porti Scozzesi, importanza in progressiva crescita nella prospettiva di una diminuzione di altre specie di pesce tradizionalmente più pescate e ora in declino.
L’Islanda è nota per avere una gestione delle risorse ittiche efficiente e lungimirante, ed è uno dei pochi paesi del Nord Atlantico dove lo stock del prezioso merluzzo (Gadus morhua) si mantiene in condizioni discrete, contrariamente a quanto avviene in UE e in Norvegia. L’ accusa da parte dei rappresentati Britannici di una improvvisa ingordigia di sgombro, al punto di mettere a rischio la salute dello stock, suona quindi un po’ fuori luogo, soprattutto se viene da chi di collassi ne ha già causati. Ciononostante, le richieste di Islanda e Faroer destano non poca preoccupazione. In particolare, inoltre, dovrebbe preoccupare il fatto che lo scontro per le risorse ittiche si sposti da specie più pregiate, longeve e carnivore come il merluzzo a specie più piccole e a rapido turnover. Questo scenario si identifica nelle previsioni di progressiva semplificazione delle catene trofiche, con grande abbondanza di poche specie, più piccole e di minor qualità. Scenari che si stanno già verificando in varie parti del mondo, e ora anche sempre più vicino a casa nostra.
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