sabato 18 giugno 2011

Vita dura per la foca monaca

Verso la metà di Aprile, una femmina di foca monaca (Monachus monachus) col suo cucciolo sono comparsi nel porto di Aegialis, sull’ isola greca di Amorgos, nelle cicladi. Le due foche, secondo quanto riportato dai media locali, si erano intrattenute per circa 3 ore nel porto, giocando con le persone sulla spiaggia. Qualcuno ha anche ripreso la foca in un video. Il cucciolo è rapidamente diventato il beniamino della popolazione locale. Alcuni giorni fa, purtroppo, il cucciolo è stato trovato morto dagli abitanti dell’isola. La morte non sarebbe naturale: il giovane maschio, di circa 6-7 mesi di età, è stato ucciso da un oggetto acuminato che ha perforato i polmoni, secondo l’autopsia effettuata dagli specialisti del MoM, organizzazione greca per la protezione della foca monaca. L’uccisione è sicuramente stata deliberata e intenzionale.


Buone notizie invece dalla Croazia: una spedizione congiunta Italo-Croata si è impegnata negli scorsi mesi per monitorare la presenza della foca lungo le coste dell’Istria, nei pressi di Pula. Qui negli ultimi anni ci sono stati numerosi avvistamenti di alcune foche, ed è fondamentale capire se si tratta di avvistamenti saltuari di individui vaganti (cosa comune per questa specie), o se invece una nuova colonia di foche si sia stabilita qui. La spedizione, finora, ha avvistato un esemplare che dormiva in una grotta, ed è riuscita a raccogliere campioni di feci da analizzare e a prendere le misure delle impronte, in base alle quali si è stabilito che si tratta di un giovane.

Gli esperti sostengono che la foca monaca mediterranea, nonostante i molti problemi e la popolazione ridotta (le stime parlano di meno di 500 individui in totale), abbia un buon potenziale di espansione. Ogni anno, molti giovani migrano dall’areale di origine in cerca di nuove zone da colonizzare, spesso venendo avvistate anche lungo le nostre coste, ancorché in modo saltuario. Il fattore critico, comunque, non è la mancanza di habitat adatti, ma la sensibilità delle popolazioni locali. È la competizione diretta con l’uomo a limitare la formazione di colonie stabili, e quindi il ritorno delle foche nelle aree in cui un tempo erano comuni.
Ne è un esempio il recente caso della foca avvistata in Egitto, a Marsa Matruh. Durante la primavera, un esemplare è stato visto più volte dai pescatori, e segnalato agli studiosi e alle autorità. Il fatto ha destato molto scalpore fra i locali, che non ricordavano di aver mai visto né sentito parlare della presenza di foche in questa zona. Alcuni dei pescatori hanno anche denunciato ingenti danni alle proprie reti da parte della foca. I pescatori hanno persino ripreso con un cellulare l’animale mentre dormiva. Purtroppo, anche in questo caso, pare che l’animale sia stato ucciso. 

Le uccisioni intenzionali sono ancora una delle maggiori cause di morte per le foche monache, un fenomeno gravissimo per una specie in pericolo diretto di estinzione, con una popolazione ridotta al lumicino e sottoposta a forti pressioni. Il motivo delle uccisioni, oltre all’ignoranza, è la percezione che la foca sia in competizione coi pescatori per il pesce. Le foche consumano quantità notevoli di pesce, spesso rubandolo dalle reti dei pescatori, e danneggiando le reti stesse. Le foche però possono divenire una importante fonte di introiti per la popolazione locale, come dimostra l’esempio delle isole Sporadi settentrionali, in Grecia, che ospitano la più grande popolazione di foca monaca in Mediterraneo. Qui il turismo è fiorente, attratto anche dal Parco Marino creato proprio per la protezione delle foche. Il coinvolgimento dei pescatori e una seria campagna di informazione e sensibilizzazione della popolazione locale sono presupposti fondamentali per rendere possibile il ritorno della foca.
La speranza è che l’attitudine delle popolazioni costiere rispetto a questi animali cambi nei prossimi anni, l’unico modo per evitare che questa splendida specie, caratteristica del nostro mare, si estingua.

Fonti e ulteriori informazioni:

Morte del cucciolo di Amorgos:

Monitoraggio in Croazia: 

Avvistamento in Egitto: notizia...

... e video:

domenica 8 maggio 2011

Gli abissi di casa nostra

Il 30 gennaio scorso una spedizione scientifica dell’ OCEANLAB di Aberdeen, Scozia, ha raggiunto il punto più profondo delle acque europee: la fossa di Oinousse, a circa 5200 m di profondità nelle acque del Mar Ionio, a 65 km dalle coste del Peloponneso. La spedizione ha posizionato sul fondo uno strumento denominato BRIL (Biogenic Reef Ichthyofauna Lander, cioè dispositivo per osservare la fauna sui banchi di coralli profondi). Il BRIL, costruito da Thomas Liney dell’OCEANLAB, è dotato di fotocamere ed è provvisto di esche per attirare pesci o altri organismi di profondità. Ha già esplorato gli abissi di altre parti del mondo, ma non era mai stato utilizzato ad una simile profondità.
  Le immagini che il BRIL ha riportato in superficie dopo 16 ore di immersione sono le prime foto del punto più profondo del mediterraneo e d’Europa. Le foto inoltre ci mostrano che, contrariamente a quel che si pensava, la vita arriva persino qui. Sono stati fotografati un gamberetto di profondità, Acanthephyra eximia, ed un pesce di profondità, il grenadiere Coryphaenoides mediterraneus. È da notare soprattutto che, benché sia un pesce abissale, non si aveva idea che il grenadiere potesse vivere a tali profondità.
  Si è sempre creduto che le grandi profondità fossero prive di vita, date le condizioni estreme, o che vi si trovassero solo pochi invertebrati. In Mediterraneo, in particolare, la fascia abissale è particolarmente inospitale per via delle temperature relativamente alte rispetto agli abissi oceanici. Questa caratteristica rende le condizioni di vita molto difficili, e non ci si aspettava di trovare organismi viventi a questa profondità. Ancora una volta, il nostro Mediterraneo ci ha sorpreso e smentito.

Fonti e informazioni:


martedì 3 maggio 2011

Gli schiavi della pesca

Ho trovato uno sconvolgente articolo sul sito della BBC, che ho creduto opportuno tradurre e riportare sul blog. A raccontare è Zaw-Zaw, 26 anni, birmano. La sua storia è simile a quella di migliaia di altri clandestini. Lui è riuscito a scappare, dopo aver assistito a cose terribili, ma molti altri non ce l’hanno fatta.

  L’odissea di Zaw-Zaw inizia quando, insieme ad altri, riesce ad entrare clandestinamente in Tailandia con l’aiuto di una organizzazione, che gli promette un lavoro dignitoso. Ma durante il viaggio, i clandestini vengono rinchiusi, le donne stuprate, ed infine venduti. Zaw-Zaw viene venduto ad una nave da pesca, e descrive le terribili condizioni in cui lui e gli altri schiavi hanno vissuto. Gli uomini erano costretti a lavorare per molte ore al giorno, e gli venivano concesse solo poche ore di sonno. Se stavano male, venivano picchiati, e vivevano sotto la minaccia di violenze o di morte. L’acqua da bere veniva drogata con amfetamine, in modo che gli schiavi lavorassero più a lungo e più rapidamente. Alcuni uomini tentarono la fuga, aggrappandosi a dei galleggianti delle reti. Due di loro annegarono, perché non sapevano nuotare. Il terzo arrivò a riva, ma venne catturato. Riportato a bordo, col volto tumefatto per le botte ricevute, venne pubblicamente torturato, per dare l’esempio agli altri schiavi, ed infine ucciso con un colpo di pistola alla testa.
Zak-Zak infine si decise a tentare la fuga, buttandosi in mare quando la barca era vicino a riva. Si nascose in mezzo ai cespugli ed eluse le ricerche dei sui aguzzini. Scappando a piedi per giorni, raggiunse una città. Ora vive, libero, a Bangkok, in Tailandia, dove aiuta altre vittime del traffico di esseri umani.
  La storia di Zak-Zak purtroppo non è isolata: pare che gli schiavi birmani tenuti in schiavitù su navi da pesca tailandesi siano migliaia. Alcuni di essi non vedono terra per anni, poiché le navi su cui sono imprigionati consegnano il pesce pescato ad altre navi, che lo sbarcano nei porti. Gli schiavi non sono solo sulle navi: anche gli impianti di lavorazione del pesce a terra utilizzano mano d’opera in condizioni di schiavitù. Un testimone, Ka Oo, racconta di essere stato chiuso in una fabbrica per quattro anni, costretto a lavorare 15-20 ore al giorno, prima di riuscire a scappare.
  Gli attivisti dei diritti umani denunciano il fatto che le grandi imprese di pesca tailandesi esportano gran parte dei loro prodotti, anche in Europa. Per questo è necessaria una maggiore sensibilità da parte dei consumatori, che devono domandarsi che cosa stanno acquistando, e fare pressione perché il governo tailandese regoli l’industria della pesca, e impedisca lo sfruttamento di esseri umani e la loro riduzione in schiavitù.
  Ricordiamoci sempre che, come consumatori, siamo in grado di influenzare le scelte e le politiche delle multinazionali e delle industrie. È ora di utilizzare questo potere.

fonte:

giovedì 28 aprile 2011

Gli squali volpe di Camogli


Due esemplari di squalo volpe (Alopias vulpinus) di 200 e 250 kg di peso sono stati pescati a distanza di pochi giorni nella Tonnarella di Camogli, all’interno dell’Area Marina Protetta (AMP) di Portofino (Genova).
  Lo squalo volpe è un predatore pelagico, che si avvicina alla costa seguendo i banchi di pesce pelagico di cui si alimenta. In particolare, secondo i biologi dell’AMP, in questo periodo dell’anno si avvicina alla costa seguendo i sugarelli (Trachurus spp.), i quali infatti entrano nella tonnara in grande quantità in questo periodo. Anche negli anni passati, le sporadiche catture di squalo volpe sono avvenute tutte nei mesi primaverili (aprile e maggio 2008, giugno 2009, aprile 2010).
Nonostante le dimensioni, lo squalo volpe non è pericoloso per l’uomo. Si nutre di piccoli pesci pelagici, che stordisce con la lunga coda, usata come una frusta contro i banchi di pesce. Come la maggior parte delle specie di squalo, è in rapido declino nei nostri mari. Uno studio di qualche anno fa (Ferretti et al., 2008) evidenziava un declino compreso fra il 96 e il 99% in biomassa per questa specie in Mediterraneo, rispetto ai livelli dell’inizio del 20° secolo. Dispiace quindi vedere questi splendidi animali intrappolati ed uccisi dalle reti della Tonnarella, tanto più perché questo avviene all’interno di un’area protetta.
C’è però un’importante considerazione da fare: la Tonnarella, con la sua storia e tradizione antica di centinaia di anni, ha svolto e svolge tutt’ora una importantissima funzione: quella di monitorare e testimoniare, con le sue catture, la straordinaria biodiversità del mediterraneo, dove non ti aspetteresti di trovare squali di 200 kg a pochi metri dalla riva. In questo contesto, le catture di pesci infrequenti, come lo squalo volpe, o addirittura rari, come la coppia di Marlin Bianco (Tetrapturus albidus) pescati nell’agosto del 2009, o il pesce Re (Lampris guttatus) assumono una connotazione differente da quella di semplice curiosità, divenendo una vera testimonianza della ricchezza che il nostro mare ha da offrirci.

Fonti e informazioni:



Articolo:
Ferretti, F., Myers, R.A., Serena, F. & Lotze, H.K. (2008). Loss of large predatory sharks from the Mediterranean Sea. Conserv. Biol., 22, 952–964.

lunedì 25 aprile 2011

Un po' di luce sui capodogli del Mediterraneo

L’11 dicembre del 2009 sette capodogli sono stati trovati spiaggiati lungo la costa del Gargano, in Puglia. L’avvenimento destò molto scalpore, forse per via della rarità questi spiaggiamenti di massa in Mediterraneo, o forse perché i capodogli, un gruppo di maschi adolescenti di età compresa fra i 15 e i 20 anni, erano ancora vivi quando sono stati trovati. il Paese intero è stato testimone inerme della lenta agonia di questi animali. 
  Ora, dopo più di un anno, uno studio ha permesso di identificare alcuni degli esemplari spiaggiati, restituendo un nome ed una storia a questi misteriosi cetacei. Lo studio di Alexandros Frantzis e colleghi, pubblicato su Deep Sea Research I, si è avvalso della tecnica della foto identificazione (di cui ho parlato nel post precedente). In particolare, sono stati comparati 3 database di foto di capodogli in Mediterraneo, appartenenti a gruppi di ricerca differenti e operanti in zone diverse (fra cui l’Istituto Tethys, che compie le sue ricerche in Mar Ligure). Questo ha permesso di identificare, fra i circa 300 individui compresi nei cataloghi, 3 dei 7 capodogli spiaggiati. Due di loro, chiamati Cla e Pomo, sono stati avvistati negli anni scorsi in mar Ligure, nella stagione estiva; il terzo, Zak Whitehead, era conosciuto in mar Ionio, dove era stato avvistato più volte insieme al gruppo di femmine in cui era nato.
  Lo studio, oltre a ridare un’identità ed un nome ai giovani capodogli, ha prodotto un risultato importantissimo e finora mai trovato: l’esistenza di flussi migratori fra i bacini Occidentale (mar Ligure) e Orientale (Ionio e basso Adriatico) del Mediterraneo. Oltre ai 3 individui spiaggiati, lo studio ha anche identificato un quarto individuo, Odysseas, il quale è stato fotografato prima in mar Ligure e poi, a distanza di 13 anni, nello Ionio.
  Perché è importante la scoperta di flussi fra i due bacini? Perché la popolazione di capodogli mediterranei è piccola, isolata (ci sono pochissimi scambi con l’Atlantico) ed in pericolo, come dimostrano gli spiaggiamenti e le collisioni con le navi, tutt’altro che rare. L’esistenza di due sottopopolazioni ancor più piccole potrebbe portare ad una mancanza di ricambio genetico, ed all’estinzione.
  Un dato interessante è che gli individui che si sono spostati fra i due bacini erano tutti maschi. È risaputo che, mentre le femmine e i giovani di capodoglio si radunano in gruppi stabili e duraturi, probabilmente stanziali, i maschi adolescenti si allontanano, formando piccoli gruppi e divenendo col tempo solitari. In Mediterraneo, ad esempio, sono noti alcuni gruppi di femmine e giovani capodogli residenti abitualmente nello Ionio e nelle isole Baleari. In mar Ligure, invece i maschi vanno a nutrirsi durante la stagione estiva, soli o in piccoli gruppi. L’ipotesi fatta in questo studio è che, mentre le femmine sono stanziali, siano i maschi a migrare da un bacino all’altro, garantendo lo scambio genetico fra popolazioni altrimenti isolate.
  Infine, lo studio fa notare con allarme che gli unici corridoi fra i due bacini sono due zone a forte rischio per i cetacei: lo Stretto di Messina e il Canale di Sicilia. Lo stretto di Messina un tempo era un corridoio di transito per i capodogli, ma da anni non ne vengono avvistati, complice probabilmente l’intenso traffico navale e i rischi legati alla pesca (per non parlare della caccia diretta, perpetrata dai pescatori verso la metà del XX secolo a colpi di dinamite). Questo corridoio è quindi ormai un passaggio chiuso. Resta il Canale di Sicilia, ma, visto l’aumento di perforazioni e attività legate all’industria di estrazione del petrolio, anche qui il disturbo è in aumento. I capodogli, infatti, sono estremamente sensibili ai rumori, in particolare alle esplosioni subacquee necessarie per le indagini su nuovi giacimenti petroliferi. La presenza e l’aumento di queste attività nel bel mezzo del canale di Sicilia potrebbe quindi costituire una barriera per i maschi che migrano, e causare così l’isolamento genetico delle due popolazioni.
  Tutte queste ipotesi, comunque, hanno bisogno di ulteriori conferme e di verifiche. Per questo è importante che gli studi di foto identificazione a lungo termine, che hanno dato finora risultati di grandissima importanza, vadano avanti.

Per ulteriori informazioni:


articolo:
Frantzis A., Airoldi S., Notarbartolo-di-Sciara G., Johnson C., Mazzariol S. (2011) Inter-basin movements of Mediterranean sperm whales provide insight into their population structure and conservation. Deep-Sea Research I 58 454-459.

giovedì 31 marzo 2011

avvistata una megattera in Mar Ligure

Alcuni giorni fa una megattera (Megaptera novaeangliae) è stata avvistata lungo la costa ligure di fronte a Savona, in prossimità del porto. L’animale, che nuotava verso ovest, appariva in buone condizioni, come riportato dalla fondazione di ricerca CIMA. L’esemplare sarebbe un individuo giovane, come attestato dalle piccole dimensioni (circa  8 metri di lunghezza stimata).
La megattera è un cetaceo misticeto della famiglia Balaenopteridae, la stessa a cui appartengono le balenottere. Si distingue per la presenza di una “gobba” (da cui il nome inglese humpback whale, “balena gobba”) e per la pinna dorsale “appiattita”. Inoltre la megattera è dotata di due natatoie molto più sviluppate rispetto alle balenottere, da cui il nome latino (Megaptera, grande pinna). Secondo alcuni studi, queste garantirebbero la capacità di cambi di direzione repentini. Queste balene sono famose per le grandi migrazioni fra le aree di riproduzione e quelle dove si nutrono, alle alte latitudini. Le megattere sono anche famose per il corteggiamento, che prevede lunghe e articolate “canzoni”, e per gli spettacolari salti ed esibizioni.
La particolarità dell’avvistamento sta nel fatto che la megattera non rientra tra le specie di balene residenti in Mediterraneo. I saltuari avvistamenti di questa specie in nel nostro mare (17 confermati, finora, dal 1800 ad oggi, vedi Notarbartolo di Sciara & Birkun, 2010) si devono probabilmente a individui che, durante le migrazioni annuali, entrano erroneamente in Mediterraneo, per poi rimanervi spesso “intrappolati”. Famoso è il caso di un individuo che, fra il Febbraio e l’Aprile del 2009, fu avvistato ripetutamente nel golfo di Trieste e in Nord Adriatico. Si ipotizzò che l’animale cercasse di seguire la rotta verso nord che l’avrebbe portato verso le aree del nord Atlantico dove questa specie va a nutrirsi in estate, senza sapere di essersi infilato in un vicolo cieco.
Gli ultimi avvistamenti risalgono all’agosto 2010 dove un esemplare è stato avvistato fra la Versilia e la Liguria, dando spettacolo con salti ed “esibizioni” non lontano dalla costa.
Le megattere espongono la pinna caudale quando si immergono (al contrario delle balenottere comuni). La pagina inferiore della pinna caudale presenta delle caratteristiche differenti ed uniche per ogni esemplare, in particolare nella distribuzione della pigmentazione bianca e nera. Partendo da questa caratteristica, gli studiosi stanno creando dei database identificativi degli individui presenti in Atlantico e negli altri oceani e forse, tramite un confronto con questi database, sarà possibile identificare le megattere avvistate in Mediterraneo di cui sono disponibili foto accurate della caudale, e conoscere l’origine e la storia di questi visitatori del nostro mare.

Fonti e maggiori informazioni:



Notarbartolo di Sciara G., Birkun A. Jr., 2010. Conserving whales, dolphins and porpoises in the Mediterranean and Black Seas: an ACCOBAMS status report, 2010. ACCOBAMS, Monaco. 212 p.

sabato 26 marzo 2011

Trivelle negli Abissi

Cipro, l’isola dalle cui acque, secondo la leggenda, nacque Afrodite, non sembra avere a cuore la conservazione del proprio mare.
  La Commissione Europea ha intimato al governo del paese di consegnare, entro due mesi, un piano di Strategia di Conservazione marina, che avrebbe dovuto essere consegnato a Giugno 2010. Pena, ricorso alla Corte di Giustizia con possibilità di sanzioni immediate. La direttiva europea 2008/56/EC (“Marine Strategy Framework Directive”, direttiva per la coordinazione di una strategia comune in ambito marino), stabilisce che ogni Paese Membro deve stabilire una strategia per proteggere e ricostruire gli ecosistemi marini, e per assicurare che le attività legate al mare siano sostenibili.
  Cipro, peraltro, ha già dimostrato la scarsa considerazione per l’ambiente marino: pochi mesi fa, nell’ambito di una iniziativa delle Nazioni Unite per delineare un “Mediterranean Action Plan”, è stato stilato un elenco delle zone a più alta biodiversità  del Mediterraneo, con lo scopo di preservarle creando così una rete di Aree Marine Protette d’alto mare. Delle 13 aree prescelte una era il Monte Eratostene, una montagna sottomarina che si eleva dagli abissi fino alla profondità di circa 600 m, ospitando comunità rare ed interessanti ed, in gran parte, ancora sconosciute. Quest’oasi di vita nelle profondità marine si trova però in acque cipriote. E, sfortunatamente, è una zona petrolifera. Cipro si è quindi opposta con forza alla protezione del Monte Eratostene, adducendo la motivazione che solo ai ciprioti spetta decidere cosa fare delle proprie risorse, e impedendone persino l’esplorazione scientifica. Ben presto, quindi, i fondali di quest’area saranno perforati dalle trivelle, con effetti devastanti sul fragile ecosistema di profondità.
  Speriamo ora che le minacce di sanzioni dell’UE sensibilizzino la società civile e le autorità cipriote, e che queste prendano delle misure per la conservazione di questo patrimonio comune di tutti. Altrimenti, avremo perso per sempre la possibilità di conoscere meglio i segreti delle profondità del Mare Nostrum, per non parlare del rischio di nuovi disastri petroliferi, dopo quello di un anno fa nel Golfo del Messico, che avrebbero effetti disastrosi in un bacino chiuso come il Mediterraneo.

Fonti ed ulteriori informazioni:




Tonno e Tsunami

  Dopo il devastante terremoto e conseguente tsunami, l’economia del Giappone è a pezzi. Il mondo intero dimostra la propria solidarietà al popolo giapponese, così duramente colpito.
  Da un punto di vista puramente conservazionistico, e con una buona dose di cinismo, si possono comunque trovare dei risvolti positivi a questo evento.
  Secondo alcuni osservatori, ad esempio, la domanda di importazione del pregiato (e sovrasfruttato) tonno rosso (Thunnus thynnus) dal Mediterraneo e Atlantico sarebbe calata sensibilmente in questi giorni, poiché la domanda di beni di lusso, in un momento di crisi come questo, cala drasticamente. Inoltre, anche le strutture per la lavorazione e conservazione sarebbero messe in crisi dalla scarsità di energia elettrica causata dal sisma. Alcune imprese del settore, al contrario, smentiscono la notizia di un calo della domanda, sostenendo che la zona meridionale del paese del Sol Levante non avrebbe risentito del sisma e quindi i consumi rimarrebbero stabili almeno in quella zona.
  Si stima che il Giappone consumi l’80% del tonno rosso pescato nel mondo, una specie che viene considerata a forte rischio di collasso ed addirittura di estinzione. U
n calo nella domanda di importazione potrebbe avere importanti conseguenze sull'industria legata alla pesca del tonno, e potrebbe finalmente dare un po' di respiro ai poveri tonni.

Fonte:

giovedì 17 marzo 2011

Balenottere a Villasimius

Il 15 marzo alcuni pescatori e i responsabili del diving center Acquaman hanno avvistato quattro balenottere nelle acque dell’Area Marina Protetta di Capo Carbonara, Villasimius. Le balenottere, che nuotavano e “sbuffavano”, sono anche state fotografate dai subacquei.



Fonti:

foto:
Acquaman, Simone Vacca

la storia del tonno rosso


Un breve video racconta la storia del tonno rosso (Thunnus thynnus), in inglese chiamato bluefin tuna (tonno a pinne blu), e la catastrofe che sta vivendo questa specie negli ultimi anni. Il video è stato realizzato da HOWTOSAVETHEBLUEFIN (come salvare il tonno rosso), una nuova, piccola organizzazione di conservazione, e tradotto in italiano dal sottoscritto. Il video mette in luce alcuni dei fatti meno conosciuti riguardo questo splendido animale che è diventato uno satus-symbol, immancabile presenza nei migliori ristoranti di sushi (e non solo) di tutto il mondo.

domenica 27 febbraio 2011

Come la pesca ha cambiato gli oceani nel ventesimo secolo

Durante la conferenza annuale dell’ American Association for the Advancement of Science (AAAS) in Washington DC, Villy Christensen, uno degli studiosi del Fisheries Research Center della University of British Columbia (Canada) ha esposto i risultati di un recente studio condotto dal suo team. Analizzando più di 200 ecosistemi, in un arco compreso fra il 1880 e il 2007, si è osservato che i grandi predatori, come tonni, cernie, e merluzzi, sono diminuiti sensibilmente (di circa due terzi) nel corso dell’ultimo secolo a livello globale, mentre i piccoli pesci, come acciughe e sardine, sono aumentati.
Questo trend, di per se, non sorprende. Infatti, la diminuzione dei predatori rientra in un fenomeno ben noto, denominato “fishing down the marine food web”, cioè il progressivo spostamento della pesca dalle specie predatrici, più pregiate e quindi le prime a venire pescate fino alla quasi totale scomparsa, verso le specie meno pregiate di pesce, quindi agli invertebrati come gamberi e calamari, ed infine alle meduse.
Questo studio si poneva invece il problema di quantificare il trend globale nel corso del ventesimo secolo, durante l’avvento della pesca su scala industriale. Il risultato racconta che, durante il secolo scorso, l’impatto della pesca sulle specie predatrici ha permesso alle specie preda di aumentare a dismisura. In altre parole, dice Christensen, “quando il gatto non c’è, i topi ballano”.
Naturalmente, i pesci pelagici, come acciughe e sardine, possono essere pescati per l’alimentazione umana. Ma vengono per lo più utilizzati come mangime per gli allevamenti di specie più pregiate, in particolare salmone e tonno. Inoltre, un ecosistema dominato da piccole specie pelagiche è molto più esposto alla variabilità ambientale, e quindi più fragile. In tali condizioni, esiste il rischio che la comunità di pesci pelagici si involva in un sistema popolato solo  da meduse e altri invertebrati, o da batteri. Situazioni simili si sono già verificate in passato, e l’aumento delle meduse in molti mari e oceani è in linea con queste previsioni.

Il convegno si poneva una domanda: ci sarà ancora pesce negli oceani nel 2050? La questione è stata affrontata alcuni anni fa da un famoso articolo pubblicato su Science da Boris Worm e colleghi (2006), in cui gli autori sostenevano che al ritmo attuale di catture non vi sarebbe più stato pesce disponibile per l’alimentazione umana nel 2048. Tale articolo fu molto discusso e anche criticato. Alla luce delle recenti scoperte, secondo Christensen, nel 2050 ci saranno certamente pesci nell’oceano. Ma saranno piccoli, e utilizzati per lo più come mangime per allevamenti. Sempre che non si intervenga immediatamente per limitare le catture a livello globale.

Fonti e informazioni:

http://www.washingtonpost.com/wp-dyn/content/article/2011/02/20/AR2011022003388.html

Referenze:

Worm et al., 2006 Impacts of Biodiversity Loss on Ocean Ecosystem Services. Science 314, 787-790

Slow Fish 2011


Ritorna a Genova l’appuntamento biennale con il Salone Slow Fish, la seione marittima di Slow Food. Dal 27 al 30 maggio 2011 si terrà la quarta edizione di questa manifestazione di grande successo.
Il tema di quest’anno è “una specie in più: i pescatori”. L’intenzione è quella di valorizzare l’importante ruolo svolto dalla pesca artigianale e dal pescatore come custode di culture e tradizioni importanti non solo per la nostra società, ma anche per l’ambiente stesso.
La manifestazione vedrà numerosi percorsi dallo spiccato carattere gastronomico (i Laboratori del Gusto, i Teatri del Gusto, le Cucine di Strada, l’Osteria del Gusto, e varie altre), inoltre sarà presente un mercato, dove si potranno trovare i prodotti con presidio Slow Fish, e una fornita enoteca.
Ma il salone non è dedicato esclusivamente ai piaceri del palato. Sono in programma numerosi percorsi guidati educativi per bambini ed adulti (che ne hanno certamente più bisogno), con ingresso gratuito per le scolaresche. In particolare verrà enfatizzato ed approfondito il ruolo attivo del consumatore, che può optare per una scelta di acquisto consapevole e mirata alla sostenibilità.
Vi saranno infine una serie di conferenze con specialisti e professionisti del settore, con molti temi affrontati fra cui il ruolo del pescatore, la costruzione del prezzo, il problema della pesca illegale, l’etichettatura e la vendita diretta.
I programmi definitivi saranno disponibili solo dal 29 marzo, ma per ora il sito è consultabile e vale la pena iniziare ad esplorarlo.

Per informazioni,
Sito di Slow Fish:

lunedì 21 febbraio 2011

biodiversità nostrana in pericolo

La straordinaria biodiversità del Canale di Sicilia è stata documentata dall’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) in un video, prodotto a seguito della campagna esplorativa nei fondali delle isole Pelagie (Pantelleria, Lampedusa  e Linosa) della scorsa estate.

Secondo il responsabile del progetto, Simone Pietro Canese, l’esplorazione delle scarpate mediante robot teleguidati, o ROV (Remotely Operated Vehicle) ha permesso di individuare svariate specie, in particolare di gorgonie mai trovate prima nel mare italiano, confermando quindi l’importanza del Canale di Sicilia come hotspot della biodiversità in Mediterraneo.

Durante la stessa campagna, i ricercatori dell’ISPRA sono stati contattati da un pescatore che aveva catturato con una rete a strascico un giovanissimo esemplare di squalo bianco (Carcharodon carcharias). La presenza di un esemplare così giovane (età stimata di due mesi) avvalora l’ipotesi che la zona serva come nursery, cioè come area dove gli squali bianchi si riproducono, o quantomeno dove i giovani trovano un ambiente ideale per i primi mesi di vita. Inoltre il ritrovamento indica che la popolazione mediterranea di squalo bianco è ancora riproduttiva, un fatto estremamente positivo soprattutto in considerazione dell’importanza di questi predatori per la stabilità della catena trofica (come confermato da molti studi scientifici) e della scarsità di avvistamenti di questa specie negli ultimi anni.

L’importanza di queste scoperte assume un ruolo ancora più rilevante in relazione con la programmata costruzione di strutture per l’estrazione di petrolio nella zona circostante l’isola di Pantelleria, come denunciato da Canese. Alla luce dei recenti disastri causati da questo tipo di attività, i dubbi sull’opportunità di questo progetto sono giustificati, senza contare che è in programma (ormai da anni) l’istituzione in questa zona di un’ Area Marina Protetta, all’interno della quale sarebbe a dir poco fuori posto la presenza di attività estrattive.


Fonti e ulteriori informazioni:

Video dei fondali di Pantelleria realizzato dall’ISPRA:

Nota stampa dell’ISPRA:

Video della necropsia al giovane esemplare di squalo bianco:


sabato 19 febbraio 2011

La vittoria delle balene

La notizia è apparsa su giornali nazionali ed internazionali. Ed è una notizia che molti attendevano con ansia: il Giappone sta ritirando la sua flotta di baleniere dai mari Antartici.
La motivazione addotta è l’impossibilità di procedere alle catture causata dalle attività di disturbo degli ambientalisti di di Sea Shepherd.
Negli ultimi giorni la campagna degli attivisti ha dato i suoi frutti: la nave appoggio Nissin Maru, inseguita da una imbarcazione della Sea Shepherd, si è allontanata dalla zona di caccia fino a costringere, almeno in apparenza, alla rinuncia all’intera campagna di caccia, peraltro a stagione già avanzata.
La notizia è stata ufficializzata dal governo giapponese, che ha dichiarato chiusa per quest’anno la stagione di caccia . Secondo le stime di Sea Shepherd, la flotta giapponese ha catturato meno del 10% della quota prefissata. Circa 900 balene sarebbero così state salvate, sempre secondo l’organizzazione. Altre fonti dichiarano numeri differenti, come circa 500 balene catturate. In ogni caso, è sorprendente che il gruppo di attivisti sia riuscito a far valere le proprie ragioni, costringendo alla resa una flotta di navi agguerrita e ben equipaggiata.
Sea Shepherd è stato oggetto di critiche in questi anni da parte di altri gruppi ambientalisti, tra cui Greenpeace, per la “aggressività” e la strategia che prevede attacchi mirati con lo scopo di bloccare le attività delle baleniere, o altre attività definite “illegali” dal gruppo,come la pesca in acque protette o l’allevamento di tonni oltre le quote consentite (vedi l’attacco sferrato a giugno 2010 contro un allevamento di tonni in acque libiche).

Ma cos’è Sea Shepherd?
È una associazione senza fini di lucro la cui missione è quella di impedire la distruzione dell’ambiente naturale, mediante la documentazione sui reati in danno dell’ambiente marino e l’azione diretta per impedire le attività illegali in alto mare.
In un’intervista a Peace Reporter, Laurens De Groot  di Sea Shepherd Mediterraneo, definisce l’associazione come “la polizia che dà la caccia ai cattivi”, in quanto fa rispettare le leggi che pure esistono, ma in alto mare vengono spesso violate in mancanza di controlli. Le acque antartiche sono dichiarate Santuario dei Cetacei, e il Giappone non avrebbe il diritto di cacciare balene, ma lo fa. Così Sea Shepherd cerca di bloccare tali attività, usando metodi come il lancio di bombe puzzolenti (composte da burro rancido) sul ponte delle navi baleniere, col doppio scopo di contaminare la carne di balena, e rendere il lavoro difficoltoso a causa del cattivo odore. Il recente successo testimonia l’efficacia di queste azioni.
Bisogna però ricordare che non sono solo le bombe puzzolenti a rendere difficile la vita alle baleniere giapponesi: di recente l’attività sta diventando sempre meno redditizia per il Giappone, a causa delle elevatissime sovvenzioni statali e dell’ormai scarso interesse del popolo giapponese, che non pare più interessato a consumare carne di balena. La caccia alla balena infatti è promossa dall’Agenzia per la Pesca giapponese, che la motiva internazionalmente con le necessità della ricerca scientifica, e la giustifica internamente come un’ attività tradizionale e con la presunta richiesta di carne a scopo alimentare.
Ma entrambe le scuse stanno venendo meno, poiché è palese che la ricerca si può svolgere con metodi non letali per le balene, e la domanda interna è talmente bassa da lasciare migliaia di  tonnellate di carne invenduta nei magazzini frigoriferi.
Dopo alcuni scandali legati ad episodi corruzione, i contribuenti giapponesi hanno cominciato a rendersi conto che stanno pagando di tasca propria una attività ormai inutile, mantenuta solo per gli interessi economici di gruppi ristretti di potere.
Durante la  prossima riunione dell’IWC, la Commissione Internazionale per la Baleneria, in programma a Giugno, forse sapremo se gli scandali e le bombe di burro rancido saranno serviti a fermare la caccia alla balena.

Fonti e approfondimenti:

Notizia del ritiro della flotta:
http://www.repubblica.it/ambiente/2011/02/16/news/caccia_alle_balene_stop_del_giappone-12517932/
Sul sito di Sea Shepherd
http://www.seashepherd.it/news-and-media/news-110217-1.html

Intervista di Peace Reporter a Sea Sheperd:
http://it.peacereporter.net/articolo/26912/Pirati-pastori+e+baleniere+giapponesi

Notizia dell’attacco all’allevamento di tonni della scorsa estate:
http://www.repubblica.it/ambiente/2010/06/21/news/tonno_rosso-5020861/index.html?ref=search

Notizia delle difficoltà economiche dell’attività baleniera giapponese (in inglese):
http://www.guardian.co.uk/environment/blog/2011/feb/08/whaling-japan


mercoledì 16 febbraio 2011

La balenottera affondata

Alcune settimane fa, una balenottera comune (Balaenoptera physalus) si è spiaggiata  lungo la costa toscana, nei pressi di San Rossore.
Quando le guardie forestali sono giunte sul luogo, l’animale era già morto. In base alle dimensioni (17 m di lunghezza) si è potuto stabilire che si tratta di un esemplare di età giovane. La forma particolare della pinna dorsale ha permesso di identificarlo con l’esemplare che era stato avvistato nelle settimane precedenti nel golfo di Follonica e di fronte a Viareggio.
Le cause della morte sono ancora da accertare, ma si esclude che la morte della balenottera possa essere stata causata dall’ingestione di sacchetti di plastica (non se n’è trovata traccia), come suggerito invece da alcuni media. Secondo le prime analisi, invece, lo stato di debilitazione, testimoniato dal ridotto strato di grasso cutaneo e dalla presenza di numerosi parassiti, potrebbe essere attribuito ad una situazione renale compromessa.
Sono stati inoltre prelevati campioni di tessuto per le analisi tossicologiche.
Si riaccende intanto la polemica sull’opportunità del progetto di un rigassificatore offshore in quest’area, che dovrebbe essere protetta in quanto facente parte del Santuario dei Cetacei. Il progetto del rigassificatore, secondo Greenpeace, è stato approvato sulla base del dato, evidentemente non del tutto vero, che non si trovino cetacei in quest’area del Santuario.  

Rimane il problema di cosa fare della carcassa. Lo smaltimento di una balena non è né semplice né economico. A qualcuno è quindi venuta l’idea di riportare la balena in mare, affondarla in modo controllato e lasciare che gli organismi decompositori agiscano, liberando lo scheletro che verrà poi recuperato per scopi didattici. Questa operazione consentirà anche di monitorare come avviene la decomposizione del corpo della balena, un’occasione unica che permetterà di osservare, per la prima volta, la dinamica delle comunità di organismi decompositori, tra cui pesci, invertebrati e batteri poco conosciuti ma dal ruolo fondamentale per il ciclo della materia organica.

Fonti e approfondimenti:

Polemica sul rigassificatore:

Affondamento della carcassa:

Identificazione e analisi:

Tethys NEWS: Riconosciuta la balenottera spiaggiata a S.Rossore

domenica 13 febbraio 2011

Due zifii

Due zifii (Ziphius cavirostris) si sono spiaggiati alcuni giorni fa vicino a Siracusa.
Lo zifio è un cetaceo appartenente al sottordine Odontoceti, cioè balene coi denti (non c’entra quindi nulla con le balenottere, con cui viene confuso sui giornali), e fa parte della famiglia Ziphidae. I membri di questa famiglia sono cetacei di medie dimensioni (lo zifio raggiunge i 7-8 metri di lunghezza) e sono tutti estremamente schivi. A questo comportamento si deve la scarsissima conoscenza che si ha su questi animali, alcune specie dei quali sono note solo grazie al ritrovamento di pochi individui spiaggiati o addirittura di poche ossa.
Secondo un recente report di ACCOBAMS (Agreement on Conservation of Cetaceans in the Black Sea, Mediterranean Sea and Contiguous Atlantic Areas) di Notarbartolo di Sciara & Birkun (2010),  in Mediterraneo lo zifio è relativamente abbondante. La sua presenza è normalmente associata alla presenza di canyon o scarpate di notevole profondità. Si trova in mar Ligure, presso il Canyon di Genova, nello Ionio e basso Adriatico, e nel mare di Alboran, nei pressi di Gibilterra. È anche segnalato nel mar Tirreno e lungo le coste greche e turche. Lo zifio si trova generalmente isolato o in piccoli gruppi di 2-3 individui, e si nutre prevalentemente di cefalopodi che caccia durante immersioni lunghe e profonde.
Data la difficoltà di avvistamento, lo zifio è stato a lungo ritenuto una specie estranea al mediterraneo, e i saltuari spiaggiamenti, a volte anche di massa, venivano spiegati con l’impossibilità di trovare nutrimento, che avrebbe portato all’inedia. Col tempo, invece, si è capito che lo zifio c’è sempre stato, e gli spiaggiamenti sono stati associati ad alcune attività antropiche, in particolare alle esercitazioni militari con sonar attivi a bassa frequenza per l’individuazione di sommergibili “invisibili”, che vengono effettuate in varie zone del mondo da molti eserciti.
Come altri deep-divers, quei cetacei che passano gran parte della propria esistenza nuotando a grandi profondità, lo zifio si spinge al limite delle proprie possibilità sfruttando gli adattamenti fisiologici di cui l’evoluzione lo ha dotato.
In queste condizioni, un fattore di disturbo improvviso può spaventare l’animale, che risale velocemente e senza dare il tempo al corpo di abituarsi gradualmente al cambio di pressione e agli altri fisiologici durante la risalita. Questo causerebbe gravi danni al sistema di orientamento e al sistema nervoso in genere, e porterebbe gli zifii a spiaggiarsi, ed infine a morire a causa dei danni riportati. Secondo un’altra teoria, invece, sarebbero direttamente le onde dei sonar a causare il danneggiamento dei tessuti nervosi degli zifii, e a provocarne la morte.
La NATO, preoccupandosi per la sorte dei cetacei e per la propria immagine fra l’opinione pubblica, si è impegnata fortemente per ridurre gli incidenti di questo tipo, finanziando ricerche volte all’individuazione delle aree più abitate da questi animali con lo scopo di evitare esercitazioni pericolose in questi luoghi.

Detto fatto. L’uso di sonar non è certo l’unica causa di spiaggiamento di cetacei. E i due zifii di Siracusa sarebbero stati aiutati con successo a riprendere il largo, secondo quanto si legge sulla stampa, suggerendo un lieto fine per la vicenda. Ma alcuni osservatori fanno notare che, proprio nei giorni precedenti allo spiaggiamento, alcune esercitazioni militari, denominate “Proud Manta”, avrebbero avuto luogo nella zona. La connessione è tutt’altro che certa, ma il dubbio è forte.

Citazioni:
Notarbartolo di Sciara G., Birkun A. Jr., 2010. Conserving whales, dolphins and porpoises in the Mediterranean and Black Seas: an ACCOBAMS status report, 2010. ACCOBAMS, Monaco. 212 p.

Immagini e commento:

sabato 29 gennaio 2011

Balene e squali dei nostri mari

Settimana scorsa, alcuni quotidiani hanno riportato un servizio su due fortunati incontri con alcuni giganti dei nostri mari. Questi incontri sono in effetti eccezionali a modo loro: non capita certo tutti i giorni di nuotare con uno squalo elefante, né di osservare il pasto di una balenottera comune dalla superficie. In realtà, questi due animali sono presenti da sempre nei nostri mari, ma le loro abitudini sono poco conosciute, e capita di rado di poterli osservare, a meno che non li si cerchi attentamente.
Lo squalo elefante (Cetorhinus maximus) è un pesce cartilagineo, uno squalo insomma, ed è il classico gigante buono: nonostante la mole si nutre solo di plankton. È imparentato con lo squalo bianco, ma i denti del suo più noto parente sono quasi scomparsi in questa specie, non venendo utilizzati. Di questa specie si sa pochissimo: non si sa dove si riproduca, non si sa dove passi l’inverno. Di certo, c’è solo che appare all’improvviso in superficie quando il plankton è più concentrato, di solito in tarda primavera e inizio estate. Lo si può osservare a volte anche sottocosta, da solo o in piccoli gruppi. Dopo poche apparizioni, la pinna dorsale triangolare scompare nel blu, e lo squalo elefante torna nel suo mondo misterioso. Alcuni suggeriscono che in inverno non si nutra, forse spostandosi in profondità e rimanendo in uno stadio letargico. In ogni caso, pochi sanno che è una specie in pericolo (spesso rimane ammagliata nelle reti fisse, soffocando). In nord Europa (Cornovaglia, Galles, Scozia, Isola di Man, Norvegia) lo squalo elefante o cetorino è più comune, e vi sono centri specializzati nel portare i turisti a vedere da vicino gli squali, e alcuni addirittura con maschera, pinne e muta vi portano a vederlo nel suo ambiente. Per evitare rischi, sia per l’uomo che per lo squalo, lo Shark Trust (l’ente che si occupa di conservazione di squali e razze in Inghilterra) ha stilato e distribuito una codice di condotta da tenere quando si compiono escursioni di questo tipo.
In mediterraneo questo genere di esperienza sarebbe difficile, data la sporadicità degli avvistamenti, che sono saltuari e imprevedibili. Qualcuno, però, è stato fortunato, come si può vedere dalle foto del servizio.
Anche la balenottera comune (Balaenoptera physalus), che si vede nelle foto seguenti, è diffusa in mediterraneo. È un animale di stazza notevole, secondo per dimensioni solo alla balenottera azzurra, assente in mediterraneo. Il termine “balenottera”, infatti, non designa una “piccola balena” come molti credono, ma una “balena con la pinna” – riferito alla pinna dorsale, assente nelle balene non appartenenti alla famiglia Balaenopteridae.
Se avvistare le balenottere è relativamente facile, non è invece un evento frequente vederle nutrirsi in superficie, né tantomeno sottocosta. Infatti, la balenottera comune normalmente si alimenta in alto mare, e, seguendo gli sciami del krill Meganictyphanes norvegica di cui si nutre, anche a profondità considerevoli. Inoltre anche la stagionalità è anomala: si ritiene che la balenottera comune spenda l’inizio dell’estate fa la Liguria e la Corsica, spostandosi poi verso il golfo del Leone e la Catalogna, seguendo il krill di cui si nutre, mentre è opinione comune che in inverno sia presente in questa zona in concentrazioni nettamente minori, mentre la gran parte della popolazione si sposta verso sud, forse per scopi riproduttivi. Fra le aree suggerite come zone riproduttive vi è in particolare il Canale di Sicilia, e forse il bacino Algerino.
Della balenottera comune si sa che, nonostante alcuni scambi con la popolazione del Nord-Atlantico, la popolazione del Mediterraneo è relativamente isolata, e la specie compie l’intero ciclo vitale all’interno del bacino.

Questi due avvistamenti sono avvenuti nelle vicinanze dell’area protetta di Tavolara. I responsabili del parco dichiarano che, grazie alla aumentata protezione, vi è più disponibilità di cibo anche per questi grandi animali pelagici. In realtà, il parco fornisce una protezione a livello locale, salvaguardando le specie di pesci e altri animali costieri, legati alla vicinanza con la terraferma e la superficie, e può funzionare per attrarre predatori di medie dimensioni, che si avvicinano dal mare aperto in cerca di piccoli pesci. Difficilmente, però, la protezione di una piccola porzione di costa può influenzare l’ abbondanza di plankton, poiché questo dipende da fattori a scala regionale, e non locale. Resta il fatto che la zona prescelta per questa area protetta corrisponde con una zona ad alta biodiversità, nonché probabilmente corridoio di migrazione anche per i grandi pelagici come questi, e le foto degli avvistamenti di questi giorni sono un segnale fortemente positivo sull’ efficacia delle aree protette.

L’articolo:

le foto:

domenica 23 gennaio 2011

lotta per lo sgombro

Lo scorso dicembre l’Islanda è uscita dal tavolo dei negoziati per la spartizione delle quote dello sgombro (Scomber scombrus) nel Nord Atlantico, tavolo che unisce l’UE, Norvegia, Islanda e isole Faroer. La rottura è stata causata dalla quota assegnata all’Islanda, troppo esigua ad avviso degli ufficiali dell’isola. Infatti l’obiettivo di avere 130 mila tonnellate di sgombro assegnate (15 mila in più rispetto all’anno precedente) è stata rifiutata dal tavolo poiché, a dire dell’UE, causerebbe lo sfondamento del tetto di 570mila tonnellate, consigliate dalla comunità scientifica come quota massima per evitare di mettere in crisi lo stock. In particolare, il timore dei Paesi UE era che se le richieste islandesi fossero state accettate, anche le Faroer e la Norvegia avrebbero reclamato quote più alte. L’uscita dalle trattative da parte dell’Islanda è infatti stata rapidamente seguita dal ritiro delle Isole Faroer, la cui delegazione rivendicava a sua volta una quota maggiore.
L’Islanda ha quindi deciso che pescherà le sue 130 tonnellate, con o senza l’accordo con l’UE. La notizia naturalmente ha destato scalpore all’interno della Commissione Europea per la Pesca, la quale ha minacciato sanzioni. Più di recente, settimana scorsa, le sanzioni sono state annunciate sotto forma di un decreto che proibisce lo sbarco di sgombro proveniente da pescherecci islandesi nei porti Europei. Il responsabile per  l’Islanda dei negoziati ha dichiarato che la misura non avrà quasi nessun effetto sugli interessi islandesi in quanto non riguarda il prodotto lavorato, che è la grande maggioranza di quello esportato, mentre solo pochissimo sgombro viene sbarcato direttamente dai pescherecci nei porti europei.
Questo scontro rispolvera vecchie ruggini fra Islanda e Gran Bretagna, risalenti alle “guerre del merluzzo” degli anni  ’50 e ’70, e ancora molto fresche nella memoria di entrambi i popoli. Lo scenario è però in evoluzione: lo sgombro è un pesce pelagico, che migra in enormi banchi dalle zone di riproduzione a quelle di alimentazione, spostandosi attraverso il Nord-Est Atlantico ed entrando nelle acque europee e islandesi. Negli ultimi anni, a causa dell’ aumento di temperature, il suo range si è esteso verso nord aumentando la propria presenza in acque islandesi (da cui la richiesta di quote maggiori). Essendo un pesce prolifico e abbondante, è stato indicato ed è certamente fra i pesci più sostenibili, questo anche grazie ad una gestione oculata che ne ha impedito finora il sovrasfruttamento. Per evitare che lo stock collassi, secondo , le catture vanno contenute. La preoccupazione Europea, e soprattutto Britannica, potrebbe non essere dettata solo da interessi ambientali, vista l’importanza economica di questa risorsa per i porti Scozzesi, importanza in progressiva crescita nella prospettiva di una diminuzione di altre specie di pesce tradizionalmente più pescate e ora in declino.
L’Islanda è nota per avere una gestione delle risorse ittiche efficiente e lungimirante, ed è uno dei pochi paesi del Nord Atlantico dove lo stock del prezioso merluzzo (Gadus morhua) si mantiene in condizioni discrete, contrariamente a quanto avviene in UE e in Norvegia. L’ accusa da parte dei rappresentati Britannici di una improvvisa ingordigia di sgombro, al punto di mettere a rischio la salute dello stock, suona quindi un po’ fuori luogo, soprattutto se viene da chi di collassi ne ha già causati. Ciononostante, le richieste di Islanda e Faroer destano non poca preoccupazione. In particolare, inoltre, dovrebbe preoccupare il fatto che lo scontro per le risorse ittiche si sposti da specie più pregiate, longeve e carnivore come il merluzzo a specie più piccole e a rapido turnover. Questo scenario si identifica nelle previsioni di progressiva semplificazione delle catene trofiche, con grande abbondanza di poche specie, più piccole e di minor qualità. Scenari che si stanno già verificando in varie parti del mondo, e ora anche sempre più vicino a casa nostra.

Per ulteriori informazioni:



domenica 16 gennaio 2011

Lotta agli scarti.

La campagna contro i “discards” lanciata da Hugh’s Fish Fight, il programma di Hugh Fearnley Whittingstall su Channel 4, ha superato quota 400mila firme.
Il fenomeno del “discarding” contro cui Hugh si batte consiste nella pratica di ributtare in mare tutto il pesce che non serve. Questa pratica, che è molto comune sui pescherecci, normalmente serve per eliminare pesce di specie non commestibili, o non particolarmente apprezzate dal mercato, oppure ancora di taglia troppo piccola per essere venduto o lavorato. Naturalmente la gran parte del pesce che viene ributtato in mare non sopravvive, a causa degli enormi traumi fisici che subisce nella rete, schiacciato fra quintali di altri pesci. Non sopravvivendo, i pesci in questione ovviamente non arriveranno a riprodursi, divenendo così, da un punto di vista etico, dei “morti inutili”. In alcuni paesi, come in Norvegia, la legge vieta di eliminare gli scarti, i quali vengono quindi sbarcati anche se sono sottotaglia o di specie non pregiate. Verranno comunque utilizzati per la produzione di farine di pesce, o per altri scopi industriali. Nel resto d’Europa purtroppo non è così, e le barche da pesca sono solite essere seguite dagli uccelli marini che sanno di poter fare un lauto pasto dopo ogni pescata.
In ogni caso, il problema che Hugh vuole combattere non è esattamente questo. L’unione Europea stabilisce delle quote (in peso) che ciascun peschereccio è abilitato a pescare. Una volta esaurita la quota, il peschereccio smette di pescare quella specie di pesce. Tutto liscio fin qui, ma c’è un problema: i pesci non vivono ciascuno per proprio conto, ma sono normalmente sparsi, in quella che si chiama “mixed fishery”, pesca mista. Quindi se un pescatore ha finito le quote per il merluzzo, e va a pescare invece, ad esempio, l’eglefino, si ritroverà comunque nella rete molti merluzzi. Ma non li può sbarcare, altrimenti andrebbe incontro a pesanti sanzioni. Per questo motivo, ogni anno tonnellate di ottimo pesce vengono ributtate a mare: proprio questo punto è l’oggetto di questa campagna di Hugh’s Fish Fight, che mira ad ottenere misure di gestione tali per cui i pesci pescati accidentalmente possano essere sbarcati e venduti. Certo, alcuni suggeriscono che i pescatori avrebbero un bel guadagno da questa ipotesi, potendo pescare più merluzzo del consentito giustificandosi dietro la scusa di non volerlo sprecare.
La questione è complessa, ma di certo c’è che il sistema delle quote ha bisogno di alcune modifiche. La riforma della politica europea sulla pesca è attesa per il 2012, sperando che sia riformata per il meglio.

Il sito di Hugh’s Fish Fight:

Un mare di plastica.

Fra le varie forme di inquinamento marino, i rifiuti solidi, e in particolare i rifiuti plastici, hanno il dubbio onore di occupare un ruolo di rilevo.
MED, “Mediterranean Endangered”, è un programma quadriennale di monitoraggio dei rifiuti marini in mediterraneo. I risultati della spedizione del 2010 mostrano un quadro preoccupante per il mediterraneo nord-occidentale, incluso il Mar ligure.
Il monitoraggio si è focalizzato in particolare sui microframmenti di plastica, definiti come frammenti di dimensioni minori di 5 mm, che sono risultati essere il 90% del totale di rifiuti.
I microframmenti sono un grosso problema che solo di recente è stato individuato. Infatti, come è noto, la plastica è molto difficile da degradare, ma si può facilmente frammentare in piccoli pezzi. Questi, di dimensioni quasi invisibili ad occhio nudo, possono essere assimilati da organismi di piccole dimensioni (ad esempio, da plankton e piccoli pesci), i quali vengono a loro volta mangiati da organismi più grandi entrando così nella catena trofica, e quindi potenzialmente arrivando anche nel nostro piatto. 
Per capire l’entità di questo problema, bisogna notare che, in alcuni dei campioni esaminati da MED, il numero di micro frammenti era 6 volte superiore a quello di organismi del plankton.  Tale concentrazione di rifiuti è simile a quella della famigerata “Great Garbage Patch” dell’Oceano Pacifico, una zona, dall’area grande due volte quella del Texas, in cui i giochi di correnti hanno formato un ammasso di rifiuti che ha destato allarme nell’opinione pubblica d’oltreoceano.
C’è da dire che i dati riportati per il Mediterraneo  sono per ora solo parziali, poiché in aree meno densamente abitate di quella esaminata la concentrazione potrebbe essere minore, ma l’allarme resta, anche perché le previsioni sulla produzione di plastica per i prossimi anni sono di un forte aumento.
Cosa possiamo fare noi? È importante sapere che la maggior parte dei rifiuti in mare non viene dalle barche, come si pensa erroneamente, e nemmeno da chi lascia rifiuti in spiaggia (comunque non fatelo!) bensì dai rifiuti urbani. Per diminuire la plastica in mare, bisogna diminuire l’uso di plastica a casa propria, nella vita di ogni giorno, ad esempio preferendo prodotti confezionati con materiali biodegradabili.

Per maggiorni informazioni:

articolo originale (in inglese):

sulla campagna MED (in inglese):