sabato 18 giugno 2011

Vita dura per la foca monaca

Verso la metà di Aprile, una femmina di foca monaca (Monachus monachus) col suo cucciolo sono comparsi nel porto di Aegialis, sull’ isola greca di Amorgos, nelle cicladi. Le due foche, secondo quanto riportato dai media locali, si erano intrattenute per circa 3 ore nel porto, giocando con le persone sulla spiaggia. Qualcuno ha anche ripreso la foca in un video. Il cucciolo è rapidamente diventato il beniamino della popolazione locale. Alcuni giorni fa, purtroppo, il cucciolo è stato trovato morto dagli abitanti dell’isola. La morte non sarebbe naturale: il giovane maschio, di circa 6-7 mesi di età, è stato ucciso da un oggetto acuminato che ha perforato i polmoni, secondo l’autopsia effettuata dagli specialisti del MoM, organizzazione greca per la protezione della foca monaca. L’uccisione è sicuramente stata deliberata e intenzionale.


Buone notizie invece dalla Croazia: una spedizione congiunta Italo-Croata si è impegnata negli scorsi mesi per monitorare la presenza della foca lungo le coste dell’Istria, nei pressi di Pula. Qui negli ultimi anni ci sono stati numerosi avvistamenti di alcune foche, ed è fondamentale capire se si tratta di avvistamenti saltuari di individui vaganti (cosa comune per questa specie), o se invece una nuova colonia di foche si sia stabilita qui. La spedizione, finora, ha avvistato un esemplare che dormiva in una grotta, ed è riuscita a raccogliere campioni di feci da analizzare e a prendere le misure delle impronte, in base alle quali si è stabilito che si tratta di un giovane.

Gli esperti sostengono che la foca monaca mediterranea, nonostante i molti problemi e la popolazione ridotta (le stime parlano di meno di 500 individui in totale), abbia un buon potenziale di espansione. Ogni anno, molti giovani migrano dall’areale di origine in cerca di nuove zone da colonizzare, spesso venendo avvistate anche lungo le nostre coste, ancorché in modo saltuario. Il fattore critico, comunque, non è la mancanza di habitat adatti, ma la sensibilità delle popolazioni locali. È la competizione diretta con l’uomo a limitare la formazione di colonie stabili, e quindi il ritorno delle foche nelle aree in cui un tempo erano comuni.
Ne è un esempio il recente caso della foca avvistata in Egitto, a Marsa Matruh. Durante la primavera, un esemplare è stato visto più volte dai pescatori, e segnalato agli studiosi e alle autorità. Il fatto ha destato molto scalpore fra i locali, che non ricordavano di aver mai visto né sentito parlare della presenza di foche in questa zona. Alcuni dei pescatori hanno anche denunciato ingenti danni alle proprie reti da parte della foca. I pescatori hanno persino ripreso con un cellulare l’animale mentre dormiva. Purtroppo, anche in questo caso, pare che l’animale sia stato ucciso. 

Le uccisioni intenzionali sono ancora una delle maggiori cause di morte per le foche monache, un fenomeno gravissimo per una specie in pericolo diretto di estinzione, con una popolazione ridotta al lumicino e sottoposta a forti pressioni. Il motivo delle uccisioni, oltre all’ignoranza, è la percezione che la foca sia in competizione coi pescatori per il pesce. Le foche consumano quantità notevoli di pesce, spesso rubandolo dalle reti dei pescatori, e danneggiando le reti stesse. Le foche però possono divenire una importante fonte di introiti per la popolazione locale, come dimostra l’esempio delle isole Sporadi settentrionali, in Grecia, che ospitano la più grande popolazione di foca monaca in Mediterraneo. Qui il turismo è fiorente, attratto anche dal Parco Marino creato proprio per la protezione delle foche. Il coinvolgimento dei pescatori e una seria campagna di informazione e sensibilizzazione della popolazione locale sono presupposti fondamentali per rendere possibile il ritorno della foca.
La speranza è che l’attitudine delle popolazioni costiere rispetto a questi animali cambi nei prossimi anni, l’unico modo per evitare che questa splendida specie, caratteristica del nostro mare, si estingua.

Fonti e ulteriori informazioni:

Morte del cucciolo di Amorgos:

Monitoraggio in Croazia: 

Avvistamento in Egitto: notizia...

... e video:

domenica 8 maggio 2011

Gli abissi di casa nostra

Il 30 gennaio scorso una spedizione scientifica dell’ OCEANLAB di Aberdeen, Scozia, ha raggiunto il punto più profondo delle acque europee: la fossa di Oinousse, a circa 5200 m di profondità nelle acque del Mar Ionio, a 65 km dalle coste del Peloponneso. La spedizione ha posizionato sul fondo uno strumento denominato BRIL (Biogenic Reef Ichthyofauna Lander, cioè dispositivo per osservare la fauna sui banchi di coralli profondi). Il BRIL, costruito da Thomas Liney dell’OCEANLAB, è dotato di fotocamere ed è provvisto di esche per attirare pesci o altri organismi di profondità. Ha già esplorato gli abissi di altre parti del mondo, ma non era mai stato utilizzato ad una simile profondità.
  Le immagini che il BRIL ha riportato in superficie dopo 16 ore di immersione sono le prime foto del punto più profondo del mediterraneo e d’Europa. Le foto inoltre ci mostrano che, contrariamente a quel che si pensava, la vita arriva persino qui. Sono stati fotografati un gamberetto di profondità, Acanthephyra eximia, ed un pesce di profondità, il grenadiere Coryphaenoides mediterraneus. È da notare soprattutto che, benché sia un pesce abissale, non si aveva idea che il grenadiere potesse vivere a tali profondità.
  Si è sempre creduto che le grandi profondità fossero prive di vita, date le condizioni estreme, o che vi si trovassero solo pochi invertebrati. In Mediterraneo, in particolare, la fascia abissale è particolarmente inospitale per via delle temperature relativamente alte rispetto agli abissi oceanici. Questa caratteristica rende le condizioni di vita molto difficili, e non ci si aspettava di trovare organismi viventi a questa profondità. Ancora una volta, il nostro Mediterraneo ci ha sorpreso e smentito.

Fonti e informazioni:


martedì 3 maggio 2011

Gli schiavi della pesca

Ho trovato uno sconvolgente articolo sul sito della BBC, che ho creduto opportuno tradurre e riportare sul blog. A raccontare è Zaw-Zaw, 26 anni, birmano. La sua storia è simile a quella di migliaia di altri clandestini. Lui è riuscito a scappare, dopo aver assistito a cose terribili, ma molti altri non ce l’hanno fatta.

  L’odissea di Zaw-Zaw inizia quando, insieme ad altri, riesce ad entrare clandestinamente in Tailandia con l’aiuto di una organizzazione, che gli promette un lavoro dignitoso. Ma durante il viaggio, i clandestini vengono rinchiusi, le donne stuprate, ed infine venduti. Zaw-Zaw viene venduto ad una nave da pesca, e descrive le terribili condizioni in cui lui e gli altri schiavi hanno vissuto. Gli uomini erano costretti a lavorare per molte ore al giorno, e gli venivano concesse solo poche ore di sonno. Se stavano male, venivano picchiati, e vivevano sotto la minaccia di violenze o di morte. L’acqua da bere veniva drogata con amfetamine, in modo che gli schiavi lavorassero più a lungo e più rapidamente. Alcuni uomini tentarono la fuga, aggrappandosi a dei galleggianti delle reti. Due di loro annegarono, perché non sapevano nuotare. Il terzo arrivò a riva, ma venne catturato. Riportato a bordo, col volto tumefatto per le botte ricevute, venne pubblicamente torturato, per dare l’esempio agli altri schiavi, ed infine ucciso con un colpo di pistola alla testa.
Zak-Zak infine si decise a tentare la fuga, buttandosi in mare quando la barca era vicino a riva. Si nascose in mezzo ai cespugli ed eluse le ricerche dei sui aguzzini. Scappando a piedi per giorni, raggiunse una città. Ora vive, libero, a Bangkok, in Tailandia, dove aiuta altre vittime del traffico di esseri umani.
  La storia di Zak-Zak purtroppo non è isolata: pare che gli schiavi birmani tenuti in schiavitù su navi da pesca tailandesi siano migliaia. Alcuni di essi non vedono terra per anni, poiché le navi su cui sono imprigionati consegnano il pesce pescato ad altre navi, che lo sbarcano nei porti. Gli schiavi non sono solo sulle navi: anche gli impianti di lavorazione del pesce a terra utilizzano mano d’opera in condizioni di schiavitù. Un testimone, Ka Oo, racconta di essere stato chiuso in una fabbrica per quattro anni, costretto a lavorare 15-20 ore al giorno, prima di riuscire a scappare.
  Gli attivisti dei diritti umani denunciano il fatto che le grandi imprese di pesca tailandesi esportano gran parte dei loro prodotti, anche in Europa. Per questo è necessaria una maggiore sensibilità da parte dei consumatori, che devono domandarsi che cosa stanno acquistando, e fare pressione perché il governo tailandese regoli l’industria della pesca, e impedisca lo sfruttamento di esseri umani e la loro riduzione in schiavitù.
  Ricordiamoci sempre che, come consumatori, siamo in grado di influenzare le scelte e le politiche delle multinazionali e delle industrie. È ora di utilizzare questo potere.

fonte:

giovedì 28 aprile 2011

Gli squali volpe di Camogli


Due esemplari di squalo volpe (Alopias vulpinus) di 200 e 250 kg di peso sono stati pescati a distanza di pochi giorni nella Tonnarella di Camogli, all’interno dell’Area Marina Protetta (AMP) di Portofino (Genova).
  Lo squalo volpe è un predatore pelagico, che si avvicina alla costa seguendo i banchi di pesce pelagico di cui si alimenta. In particolare, secondo i biologi dell’AMP, in questo periodo dell’anno si avvicina alla costa seguendo i sugarelli (Trachurus spp.), i quali infatti entrano nella tonnara in grande quantità in questo periodo. Anche negli anni passati, le sporadiche catture di squalo volpe sono avvenute tutte nei mesi primaverili (aprile e maggio 2008, giugno 2009, aprile 2010).
Nonostante le dimensioni, lo squalo volpe non è pericoloso per l’uomo. Si nutre di piccoli pesci pelagici, che stordisce con la lunga coda, usata come una frusta contro i banchi di pesce. Come la maggior parte delle specie di squalo, è in rapido declino nei nostri mari. Uno studio di qualche anno fa (Ferretti et al., 2008) evidenziava un declino compreso fra il 96 e il 99% in biomassa per questa specie in Mediterraneo, rispetto ai livelli dell’inizio del 20° secolo. Dispiace quindi vedere questi splendidi animali intrappolati ed uccisi dalle reti della Tonnarella, tanto più perché questo avviene all’interno di un’area protetta.
C’è però un’importante considerazione da fare: la Tonnarella, con la sua storia e tradizione antica di centinaia di anni, ha svolto e svolge tutt’ora una importantissima funzione: quella di monitorare e testimoniare, con le sue catture, la straordinaria biodiversità del mediterraneo, dove non ti aspetteresti di trovare squali di 200 kg a pochi metri dalla riva. In questo contesto, le catture di pesci infrequenti, come lo squalo volpe, o addirittura rari, come la coppia di Marlin Bianco (Tetrapturus albidus) pescati nell’agosto del 2009, o il pesce Re (Lampris guttatus) assumono una connotazione differente da quella di semplice curiosità, divenendo una vera testimonianza della ricchezza che il nostro mare ha da offrirci.

Fonti e informazioni:



Articolo:
Ferretti, F., Myers, R.A., Serena, F. & Lotze, H.K. (2008). Loss of large predatory sharks from the Mediterranean Sea. Conserv. Biol., 22, 952–964.

lunedì 25 aprile 2011

Un po' di luce sui capodogli del Mediterraneo

L’11 dicembre del 2009 sette capodogli sono stati trovati spiaggiati lungo la costa del Gargano, in Puglia. L’avvenimento destò molto scalpore, forse per via della rarità questi spiaggiamenti di massa in Mediterraneo, o forse perché i capodogli, un gruppo di maschi adolescenti di età compresa fra i 15 e i 20 anni, erano ancora vivi quando sono stati trovati. il Paese intero è stato testimone inerme della lenta agonia di questi animali. 
  Ora, dopo più di un anno, uno studio ha permesso di identificare alcuni degli esemplari spiaggiati, restituendo un nome ed una storia a questi misteriosi cetacei. Lo studio di Alexandros Frantzis e colleghi, pubblicato su Deep Sea Research I, si è avvalso della tecnica della foto identificazione (di cui ho parlato nel post precedente). In particolare, sono stati comparati 3 database di foto di capodogli in Mediterraneo, appartenenti a gruppi di ricerca differenti e operanti in zone diverse (fra cui l’Istituto Tethys, che compie le sue ricerche in Mar Ligure). Questo ha permesso di identificare, fra i circa 300 individui compresi nei cataloghi, 3 dei 7 capodogli spiaggiati. Due di loro, chiamati Cla e Pomo, sono stati avvistati negli anni scorsi in mar Ligure, nella stagione estiva; il terzo, Zak Whitehead, era conosciuto in mar Ionio, dove era stato avvistato più volte insieme al gruppo di femmine in cui era nato.
  Lo studio, oltre a ridare un’identità ed un nome ai giovani capodogli, ha prodotto un risultato importantissimo e finora mai trovato: l’esistenza di flussi migratori fra i bacini Occidentale (mar Ligure) e Orientale (Ionio e basso Adriatico) del Mediterraneo. Oltre ai 3 individui spiaggiati, lo studio ha anche identificato un quarto individuo, Odysseas, il quale è stato fotografato prima in mar Ligure e poi, a distanza di 13 anni, nello Ionio.
  Perché è importante la scoperta di flussi fra i due bacini? Perché la popolazione di capodogli mediterranei è piccola, isolata (ci sono pochissimi scambi con l’Atlantico) ed in pericolo, come dimostrano gli spiaggiamenti e le collisioni con le navi, tutt’altro che rare. L’esistenza di due sottopopolazioni ancor più piccole potrebbe portare ad una mancanza di ricambio genetico, ed all’estinzione.
  Un dato interessante è che gli individui che si sono spostati fra i due bacini erano tutti maschi. È risaputo che, mentre le femmine e i giovani di capodoglio si radunano in gruppi stabili e duraturi, probabilmente stanziali, i maschi adolescenti si allontanano, formando piccoli gruppi e divenendo col tempo solitari. In Mediterraneo, ad esempio, sono noti alcuni gruppi di femmine e giovani capodogli residenti abitualmente nello Ionio e nelle isole Baleari. In mar Ligure, invece i maschi vanno a nutrirsi durante la stagione estiva, soli o in piccoli gruppi. L’ipotesi fatta in questo studio è che, mentre le femmine sono stanziali, siano i maschi a migrare da un bacino all’altro, garantendo lo scambio genetico fra popolazioni altrimenti isolate.
  Infine, lo studio fa notare con allarme che gli unici corridoi fra i due bacini sono due zone a forte rischio per i cetacei: lo Stretto di Messina e il Canale di Sicilia. Lo stretto di Messina un tempo era un corridoio di transito per i capodogli, ma da anni non ne vengono avvistati, complice probabilmente l’intenso traffico navale e i rischi legati alla pesca (per non parlare della caccia diretta, perpetrata dai pescatori verso la metà del XX secolo a colpi di dinamite). Questo corridoio è quindi ormai un passaggio chiuso. Resta il Canale di Sicilia, ma, visto l’aumento di perforazioni e attività legate all’industria di estrazione del petrolio, anche qui il disturbo è in aumento. I capodogli, infatti, sono estremamente sensibili ai rumori, in particolare alle esplosioni subacquee necessarie per le indagini su nuovi giacimenti petroliferi. La presenza e l’aumento di queste attività nel bel mezzo del canale di Sicilia potrebbe quindi costituire una barriera per i maschi che migrano, e causare così l’isolamento genetico delle due popolazioni.
  Tutte queste ipotesi, comunque, hanno bisogno di ulteriori conferme e di verifiche. Per questo è importante che gli studi di foto identificazione a lungo termine, che hanno dato finora risultati di grandissima importanza, vadano avanti.

Per ulteriori informazioni:


articolo:
Frantzis A., Airoldi S., Notarbartolo-di-Sciara G., Johnson C., Mazzariol S. (2011) Inter-basin movements of Mediterranean sperm whales provide insight into their population structure and conservation. Deep-Sea Research I 58 454-459.

giovedì 31 marzo 2011

avvistata una megattera in Mar Ligure

Alcuni giorni fa una megattera (Megaptera novaeangliae) è stata avvistata lungo la costa ligure di fronte a Savona, in prossimità del porto. L’animale, che nuotava verso ovest, appariva in buone condizioni, come riportato dalla fondazione di ricerca CIMA. L’esemplare sarebbe un individuo giovane, come attestato dalle piccole dimensioni (circa  8 metri di lunghezza stimata).
La megattera è un cetaceo misticeto della famiglia Balaenopteridae, la stessa a cui appartengono le balenottere. Si distingue per la presenza di una “gobba” (da cui il nome inglese humpback whale, “balena gobba”) e per la pinna dorsale “appiattita”. Inoltre la megattera è dotata di due natatoie molto più sviluppate rispetto alle balenottere, da cui il nome latino (Megaptera, grande pinna). Secondo alcuni studi, queste garantirebbero la capacità di cambi di direzione repentini. Queste balene sono famose per le grandi migrazioni fra le aree di riproduzione e quelle dove si nutrono, alle alte latitudini. Le megattere sono anche famose per il corteggiamento, che prevede lunghe e articolate “canzoni”, e per gli spettacolari salti ed esibizioni.
La particolarità dell’avvistamento sta nel fatto che la megattera non rientra tra le specie di balene residenti in Mediterraneo. I saltuari avvistamenti di questa specie in nel nostro mare (17 confermati, finora, dal 1800 ad oggi, vedi Notarbartolo di Sciara & Birkun, 2010) si devono probabilmente a individui che, durante le migrazioni annuali, entrano erroneamente in Mediterraneo, per poi rimanervi spesso “intrappolati”. Famoso è il caso di un individuo che, fra il Febbraio e l’Aprile del 2009, fu avvistato ripetutamente nel golfo di Trieste e in Nord Adriatico. Si ipotizzò che l’animale cercasse di seguire la rotta verso nord che l’avrebbe portato verso le aree del nord Atlantico dove questa specie va a nutrirsi in estate, senza sapere di essersi infilato in un vicolo cieco.
Gli ultimi avvistamenti risalgono all’agosto 2010 dove un esemplare è stato avvistato fra la Versilia e la Liguria, dando spettacolo con salti ed “esibizioni” non lontano dalla costa.
Le megattere espongono la pinna caudale quando si immergono (al contrario delle balenottere comuni). La pagina inferiore della pinna caudale presenta delle caratteristiche differenti ed uniche per ogni esemplare, in particolare nella distribuzione della pigmentazione bianca e nera. Partendo da questa caratteristica, gli studiosi stanno creando dei database identificativi degli individui presenti in Atlantico e negli altri oceani e forse, tramite un confronto con questi database, sarà possibile identificare le megattere avvistate in Mediterraneo di cui sono disponibili foto accurate della caudale, e conoscere l’origine e la storia di questi visitatori del nostro mare.

Fonti e maggiori informazioni:



Notarbartolo di Sciara G., Birkun A. Jr., 2010. Conserving whales, dolphins and porpoises in the Mediterranean and Black Seas: an ACCOBAMS status report, 2010. ACCOBAMS, Monaco. 212 p.

sabato 26 marzo 2011

Trivelle negli Abissi

Cipro, l’isola dalle cui acque, secondo la leggenda, nacque Afrodite, non sembra avere a cuore la conservazione del proprio mare.
  La Commissione Europea ha intimato al governo del paese di consegnare, entro due mesi, un piano di Strategia di Conservazione marina, che avrebbe dovuto essere consegnato a Giugno 2010. Pena, ricorso alla Corte di Giustizia con possibilità di sanzioni immediate. La direttiva europea 2008/56/EC (“Marine Strategy Framework Directive”, direttiva per la coordinazione di una strategia comune in ambito marino), stabilisce che ogni Paese Membro deve stabilire una strategia per proteggere e ricostruire gli ecosistemi marini, e per assicurare che le attività legate al mare siano sostenibili.
  Cipro, peraltro, ha già dimostrato la scarsa considerazione per l’ambiente marino: pochi mesi fa, nell’ambito di una iniziativa delle Nazioni Unite per delineare un “Mediterranean Action Plan”, è stato stilato un elenco delle zone a più alta biodiversità  del Mediterraneo, con lo scopo di preservarle creando così una rete di Aree Marine Protette d’alto mare. Delle 13 aree prescelte una era il Monte Eratostene, una montagna sottomarina che si eleva dagli abissi fino alla profondità di circa 600 m, ospitando comunità rare ed interessanti ed, in gran parte, ancora sconosciute. Quest’oasi di vita nelle profondità marine si trova però in acque cipriote. E, sfortunatamente, è una zona petrolifera. Cipro si è quindi opposta con forza alla protezione del Monte Eratostene, adducendo la motivazione che solo ai ciprioti spetta decidere cosa fare delle proprie risorse, e impedendone persino l’esplorazione scientifica. Ben presto, quindi, i fondali di quest’area saranno perforati dalle trivelle, con effetti devastanti sul fragile ecosistema di profondità.
  Speriamo ora che le minacce di sanzioni dell’UE sensibilizzino la società civile e le autorità cipriote, e che queste prendano delle misure per la conservazione di questo patrimonio comune di tutti. Altrimenti, avremo perso per sempre la possibilità di conoscere meglio i segreti delle profondità del Mare Nostrum, per non parlare del rischio di nuovi disastri petroliferi, dopo quello di un anno fa nel Golfo del Messico, che avrebbero effetti disastrosi in un bacino chiuso come il Mediterraneo.

Fonti ed ulteriori informazioni: