Ho trovato uno sconvolgente articolo sul sito della BBC, che ho creduto opportuno tradurre e riportare sul blog. A raccontare è Zaw-Zaw, 26 anni, birmano. La sua storia è simile a quella di migliaia di altri clandestini. Lui è riuscito a scappare, dopo aver assistito a cose terribili, ma molti altri non ce l’hanno fatta.
L’odissea di Zaw-Zaw inizia quando, insieme ad altri, riesce ad entrare clandestinamente in Tailandia con l’aiuto di una organizzazione, che gli promette un lavoro dignitoso. Ma durante il viaggio, i clandestini vengono rinchiusi, le donne stuprate, ed infine venduti. Zaw-Zaw viene venduto ad una nave da pesca, e descrive le terribili condizioni in cui lui e gli altri schiavi hanno vissuto. Gli uomini erano costretti a lavorare per molte ore al giorno, e gli venivano concesse solo poche ore di sonno. Se stavano male, venivano picchiati, e vivevano sotto la minaccia di violenze o di morte. L’acqua da bere veniva drogata con amfetamine, in modo che gli schiavi lavorassero più a lungo e più rapidamente. Alcuni uomini tentarono la fuga, aggrappandosi a dei galleggianti delle reti. Due di loro annegarono, perché non sapevano nuotare. Il terzo arrivò a riva, ma venne catturato. Riportato a bordo, col volto tumefatto per le botte ricevute, venne pubblicamente torturato, per dare l’esempio agli altri schiavi, ed infine ucciso con un colpo di pistola alla testa.
Zak-Zak infine si decise a tentare la fuga, buttandosi in mare quando la barca era vicino a riva. Si nascose in mezzo ai cespugli ed eluse le ricerche dei sui aguzzini. Scappando a piedi per giorni, raggiunse una città. Ora vive, libero, a Bangkok, in Tailandia, dove aiuta altre vittime del traffico di esseri umani.
La storia di Zak-Zak purtroppo non è isolata: pare che gli schiavi birmani tenuti in schiavitù su navi da pesca tailandesi siano migliaia. Alcuni di essi non vedono terra per anni, poiché le navi su cui sono imprigionati consegnano il pesce pescato ad altre navi, che lo sbarcano nei porti. Gli schiavi non sono solo sulle navi: anche gli impianti di lavorazione del pesce a terra utilizzano mano d’opera in condizioni di schiavitù. Un testimone, Ka Oo, racconta di essere stato chiuso in una fabbrica per quattro anni, costretto a lavorare 15-20 ore al giorno, prima di riuscire a scappare.
Gli attivisti dei diritti umani denunciano il fatto che le grandi imprese di pesca tailandesi esportano gran parte dei loro prodotti, anche in Europa. Per questo è necessaria una maggiore sensibilità da parte dei consumatori, che devono domandarsi che cosa stanno acquistando, e fare pressione perché il governo tailandese regoli l’industria della pesca, e impedisca lo sfruttamento di esseri umani e la loro riduzione in schiavitù.
Ricordiamoci sempre che, come consumatori, siamo in grado di influenzare le scelte e le politiche delle multinazionali e delle industrie. È ora di utilizzare questo potere.
fonte:
Nessun commento:
Posta un commento