domenica 8 maggio 2011

Gli abissi di casa nostra

Il 30 gennaio scorso una spedizione scientifica dell’ OCEANLAB di Aberdeen, Scozia, ha raggiunto il punto più profondo delle acque europee: la fossa di Oinousse, a circa 5200 m di profondità nelle acque del Mar Ionio, a 65 km dalle coste del Peloponneso. La spedizione ha posizionato sul fondo uno strumento denominato BRIL (Biogenic Reef Ichthyofauna Lander, cioè dispositivo per osservare la fauna sui banchi di coralli profondi). Il BRIL, costruito da Thomas Liney dell’OCEANLAB, è dotato di fotocamere ed è provvisto di esche per attirare pesci o altri organismi di profondità. Ha già esplorato gli abissi di altre parti del mondo, ma non era mai stato utilizzato ad una simile profondità.
  Le immagini che il BRIL ha riportato in superficie dopo 16 ore di immersione sono le prime foto del punto più profondo del mediterraneo e d’Europa. Le foto inoltre ci mostrano che, contrariamente a quel che si pensava, la vita arriva persino qui. Sono stati fotografati un gamberetto di profondità, Acanthephyra eximia, ed un pesce di profondità, il grenadiere Coryphaenoides mediterraneus. È da notare soprattutto che, benché sia un pesce abissale, non si aveva idea che il grenadiere potesse vivere a tali profondità.
  Si è sempre creduto che le grandi profondità fossero prive di vita, date le condizioni estreme, o che vi si trovassero solo pochi invertebrati. In Mediterraneo, in particolare, la fascia abissale è particolarmente inospitale per via delle temperature relativamente alte rispetto agli abissi oceanici. Questa caratteristica rende le condizioni di vita molto difficili, e non ci si aspettava di trovare organismi viventi a questa profondità. Ancora una volta, il nostro Mediterraneo ci ha sorpreso e smentito.

Fonti e informazioni:


martedì 3 maggio 2011

Gli schiavi della pesca

Ho trovato uno sconvolgente articolo sul sito della BBC, che ho creduto opportuno tradurre e riportare sul blog. A raccontare è Zaw-Zaw, 26 anni, birmano. La sua storia è simile a quella di migliaia di altri clandestini. Lui è riuscito a scappare, dopo aver assistito a cose terribili, ma molti altri non ce l’hanno fatta.

  L’odissea di Zaw-Zaw inizia quando, insieme ad altri, riesce ad entrare clandestinamente in Tailandia con l’aiuto di una organizzazione, che gli promette un lavoro dignitoso. Ma durante il viaggio, i clandestini vengono rinchiusi, le donne stuprate, ed infine venduti. Zaw-Zaw viene venduto ad una nave da pesca, e descrive le terribili condizioni in cui lui e gli altri schiavi hanno vissuto. Gli uomini erano costretti a lavorare per molte ore al giorno, e gli venivano concesse solo poche ore di sonno. Se stavano male, venivano picchiati, e vivevano sotto la minaccia di violenze o di morte. L’acqua da bere veniva drogata con amfetamine, in modo che gli schiavi lavorassero più a lungo e più rapidamente. Alcuni uomini tentarono la fuga, aggrappandosi a dei galleggianti delle reti. Due di loro annegarono, perché non sapevano nuotare. Il terzo arrivò a riva, ma venne catturato. Riportato a bordo, col volto tumefatto per le botte ricevute, venne pubblicamente torturato, per dare l’esempio agli altri schiavi, ed infine ucciso con un colpo di pistola alla testa.
Zak-Zak infine si decise a tentare la fuga, buttandosi in mare quando la barca era vicino a riva. Si nascose in mezzo ai cespugli ed eluse le ricerche dei sui aguzzini. Scappando a piedi per giorni, raggiunse una città. Ora vive, libero, a Bangkok, in Tailandia, dove aiuta altre vittime del traffico di esseri umani.
  La storia di Zak-Zak purtroppo non è isolata: pare che gli schiavi birmani tenuti in schiavitù su navi da pesca tailandesi siano migliaia. Alcuni di essi non vedono terra per anni, poiché le navi su cui sono imprigionati consegnano il pesce pescato ad altre navi, che lo sbarcano nei porti. Gli schiavi non sono solo sulle navi: anche gli impianti di lavorazione del pesce a terra utilizzano mano d’opera in condizioni di schiavitù. Un testimone, Ka Oo, racconta di essere stato chiuso in una fabbrica per quattro anni, costretto a lavorare 15-20 ore al giorno, prima di riuscire a scappare.
  Gli attivisti dei diritti umani denunciano il fatto che le grandi imprese di pesca tailandesi esportano gran parte dei loro prodotti, anche in Europa. Per questo è necessaria una maggiore sensibilità da parte dei consumatori, che devono domandarsi che cosa stanno acquistando, e fare pressione perché il governo tailandese regoli l’industria della pesca, e impedisca lo sfruttamento di esseri umani e la loro riduzione in schiavitù.
  Ricordiamoci sempre che, come consumatori, siamo in grado di influenzare le scelte e le politiche delle multinazionali e delle industrie. È ora di utilizzare questo potere.

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